Capitolo 1º

CAPITOLO 1º







Mi piace pensare che questo racconto venga letto da tutte quelle persone che, nel corso della loro vita, avvertano ogni tanto il bisogno di fermarsi un attimo e raccogliersi in una serena riflessione per riorganizzare le proprie idee. Non so se questa lettura risolverá eventuali problemi che il lettore sta attraversando; spero tuttavia che riceverá almeno un contributo per poter superare alcuni momenti negativi della propria esistenza.


La storia che sto per raccontare, anzi le storie, le sto scrivendo dal Brasile. Terra meravigliosa, Terra del sole, delle spiagge, dei divertimenti e della semplicitá; Terra di ricchezze e di povertá indescrivibili; Terra di foreste inesplorate e di innumerevoli fiumi che scorrono silenziosi tra le foreste tropicali dell’Amazzonia e del Nord-est, tra il Mato Grosso ed il Pantanal; Terra delle mulatte; Terra dell’amore.


Arrivai in Brasile, a Belo Horizonte, nell’agosto del 1999; giunsi in questa nazione dopo aver vissuto in Italia una vita molto, ma molto “movimentata”. Arrivai in quella cittá per insegnare italiano, storia e geografia in una scuola elementare italo-brasiliana, creata dalla FIAT-Auto e legalmente riconosciuta dallo Stato italiano. La selezione, alla quale mi sottoposi per andare ad insegnare in Brasile, avvenne a Torino; in quel periodo io vivevo a Roma. A Torino fui intervistato da una signora di circa 70-75 anni, la quale si presentò con il titolo accademico di dottoressa in psicologia e sociologia. Dopo un colloquio inerente il mio curriculum vitae, durante il quale fui invitato ad esprimere alcune mie opinioni personali, e dopo avermi spiegato quali erano le eventuali condizioni economiche contrattuali offertemi (circa 1.100 dollari al mese pagati in valuta locale, ossia in reais, piú un contributo mensile di 300 dollari per l’affitto dell’appartamento), mi fece rispondere (con le crocette) a tutta una serie di quiz di natura storica, filosofica, letteraria, geografica e matematica. Francamente, mentre stavo cercando di rispondere a quei quiz, pensai piú volte di desistere ma alla fine, tra mille difficoltá mnemoniche e conoscitive, completai l’opera; entro il tempo massimo stabilito (un’ora), consegnai i fogli alla dottoressa la quale mi disse che entro due giorni mi avrebbe comunicato tramite telefono, l’esito del risultato della mia prova. Ora devo far notare, con molta obiettività che, secondo la mia modesta opinione, i quiz da me azzeccati non superavano il 10 per cento per cui, tornandomene a Roma in treno da Torino, pensavo tra me e me che, molto probabilmente, non sarei stato scelto per far parte del gruppo degli otto insegnanti che la ditta stava selezionando per inviare in Brasile…
Rammaricato per aver probabilmente perso una formidabile occasione, mi raccolsi nei miei pensieri e, durante tutto il viaggio da Torino a Roma, non facevo altro che bilanci della mia attuale situazione, del mio passato e… del mio futuro. Dall’esame di tali riflessioni mi sentivo molto soddisfatto del mio passato, poco felice del presente, totalmente preoccupato sul mio futuro; tuttavia, una cosa mi piaceva molto di me, il coraggio di tentare tutte le opportunitá che mi si presentassero lungo il cammino della vita. Anche in questa circostanza avevo avuto un “grande coraggio”; ossia, pretendevo di andare ad insegnare in una scuola italo-brasiliana solo perché avevo acquisito, trent’anni prima, il diploma di Maturitá Magistrale. Non avevo mai insegnato ai bambini, forse non ne avevo nemmeno la vocazione; non avevo mai partecipato ad un concorso pubblico per l’insegnamento (era piú facile vincere una lotteria che un concorso per l’insegnamento nella scuola elementare); tuttavia avevo il “Titolo di Studio” richiesto per partecipare a detta selezione. Quindi vi partecipai.

Durante queste mie riflessioni, mentre il treno attraversava cittá addormentate e campagne avvolte dalle tenebre, pensavo che molto spesso il corso della vita di ognuno di noi é una cosa giá scritta. Ad un certo punto mi tornó in mente come ero venuto a conoscenza di quella selezione. É mio dovere spiegare al lettore che in quel periodo, per vivere dignitosamente, facevo l’autista di autobus granturismo poiché la pensione che ricevevo dallo Stato, per i miei 20 anni di servizio con la Pubblica Amministrazione, non era sufficiente per darmi da vivere; per cui, avendo io previsto in passato che avrei potuto incontrare momenti di difficoltá lavorativa o economica, mi ero in qualche modo premunito a tale evenienza, conseguendo tutti i gradi di patente di guida automobilistica, compreso il CAP (Certificato di Abilitazione Professionale) per poter guidare anche i mezzi pubblici.
Accadde infatti che, a seguito di alcune vicende della mia turbolenta vita, rimasi senza un lavoro e con pochissimi risparmi. Ritrovarsi a quasi 50 anni senza un lavoro, senza risorse economiche e senza nessuna prospettiva per il futuro si rischia decisamente molto. Non voglio quí illustrare cosa si prova a vivere in una situazione del genere, perché altri, molto piú preparati di me, sanno spiegarlo meglio, comunque posso assicurare che, se non si dispone di una struttura psichica ben equilibrata e di una morale ben solida, i pericoli a cui si va incontro sono tanti ed imprevedibili. Io mi considero un fortunato perché, pur essendomi ritrovato nella situazione di cui sopra, ho reagito bene e, con molta umiltá ma con decoro ed orgoglio, ho iniziato a fare l’autista di autobus (a 50 anni) per il trasporto di turisti. Anche questa “esperienza”, che é durata circa un anno, mi ha fatto conoscere un mondo nuovo, insegnandomi cose sconosciute.

Durante questo lavoro di autista di pulman, feci un viaggio da Roma a Milano per accompagnare un gruppo di turisti giapponesi i quali, dopo aver visitato alcune cittá italiane, tornavano in Giappone ripartendo dall’aeroporto di Milano-Malpensa. In una sosta presso un’area di servizio dell’autostrada del sole lessi, in un quotidiano milanese, che una ditta di “dimensione internazionale” stava cercando insegnanti di varie discipline, da avviare in una scuola italiana in Brasile; lessi attentamente l’annuncio, esaminai i requisiti richiesti e notai che… potevo partecipare anch’io.
Infatti partecipai. Ora il lettore si spiega il perché delle mie difficoltà mnemoniche e conoscitive nel compilare i quiz del colloquio selettivo. In sostanza non avevo piú letto un testo scolastico da circa 25 anni, e le domande dei quiz si riferivano quasi tutte a nozioni scolastiche; tuttavia, dopo due giorni dal colloquio, ricevetti la tanto attesa risposta da Torino. Avevo superato la prova. Rimasi sbigottito; incredulo; era impossibile. Pensai che la psicologa mi avesse erroneamente attribuito gli elaborati di qualche altro partecipante; decisi di richiamarla al telefono, ma lei mi confermó che non c’era stato nessun equivoco. Ero stato selezionato e dovevo preparare con urgenza i documenti per partire. Mi fu detto che sarei partito entro dieci giorni; infatti il 19 Agosto 1999 partii da Roma per Belo Horizonte (capitale dello Stato del Minas Gerais). All’aeroporto di Milano-Malpensa cercai di individuare gli altri colleghi che sarebbero partiti insieme a me; in meno di mezz’ora, pur non essendoci mai incontrati prima, ci individuammo tutti e otto. Fu molto facile familiarizzare; ognuno di noi aveva giá vissuto esperienze lavorative interessanti, ma tutti andavamo in Brasile per la prima volta. Alcuni andavano anche ad insegnare per la prima volta. Nessuno del gruppo conosceva una parola di portoghese (lingua parlata in Brasile), e ció preoccupava molto noi che andavamo ad insegnare, per la prima volta nella nostra vita, a bambini brasiliani che non conoscevano nessuna parola di italiano. Lascio immaginare al lettore quale fosse il nostro, ed in particolare il mio, stato d’animo.

Arrivammo a Belo Horizonte di venerdí sera. Il sabato mattina fummo accompagnati a conoscere la nostra nuova sede di lavoro, la scuola Fundação Torino. Ci furono presentati anche alcuni colleghi italiani che giá insegnavano in quell’istituto. La domenica cominciammo a conoscere un po’ la cittá e subito ci imbattemmo in uno dei tanti equivoci che esistono tra la lingua portoghese e quella italiana. Accadde infatti che, mentre stavo passeggiando insieme ad altri cinque colleghi, uno di loro, Paolo, si fermó di colpo e cominció a guardarsi intorno; noi, un po’ stupíti da quella strana fermata, lo sollecitammo a proseguire la passeggiata, ma lui niente, non intendeva assolutamente muoversi da lí. Noi, ancor piú incuriositi da quello strano atteggiamento, gli chiedemmo perché non volesse proseguire la camminata, ma lui, con ferma convinzione ed un po’ impaziente, ci rispose che da lì non si sarebbe mosso. Tutti noi ci guardammo intorno per capire da cosa derivasse quella strana decisione di Paolo, ma nessuno di noi riuscì a dare una spiegazione a quell’improvviso atteggiamento. Paolo, avendo capito il nostro imbarazzo, ci indicó con un dito una placca metallica posta vicino ad un distributore di benzina, tipo segnale stradale, su cui stava scritto “ fica aberta 24 horas”. Paolo, non conoscendo niente di portoghese, interpretò quella scritta con il significato italiano e quindi aveva deciso di aspettare che comparisse “colei” che la teneva aperta ininterrottamente per 24 ore e che lui, ma non solo lui, era curioso di vederla. Tutti scoppiammo in una grande e fragorosa risata, ma tutti ci chiedemmo anche cosa potesse significare quella scritta. Il dilemma ci fu risolto il giorno dopo da un altro professore italiano che da anni viveva a Belo Horizonte. Il significato di quella scritta era “resta aperto 24 ore” ossia, era una attivitá commerciale che non chiudeva mai (non aveva orari di apertura-chiusura e nemmeno riposi settimanali). Scoprimmo cosí anche uno dei vantaggi nei servizi commerciali del Brasile.

Il lunedí mattina iniziammo il lavoro; ci furono assegnate le classi e cominciammo a ………. insegnare. A me furono assegnate due prime elementari ed un corso di italiano per adulti, al quale partecipavano studenti e liberi professionisti brasiliani, che desideravano apprendere la lingua italiana. Nello stesso giorno espletammo anche tutte le pratiche burocratiche ed amministrative; fu cosí che scoprii che in Brasile il mio modesto titolo di studio di Maturitá Magistrale veniva trasformato in Professore di italiano, storia, geografia e religione. Rimasi quasi stordito per l’eccessiva gratificazione accademica attribuitami, ma era cosí. Prendere o lasciare. Non avevo alternativa.
Ora mi sia consentita una riflessione. Ognuno di noi, nel corso della propria vita, prima o poi si trova ad affrontare situazioni difficoltose o di difficile soluzione, ma mai pensa di vivere situazioni totalmente imprevedibili o inimmaginabili. Io stavo vivendo una esperienza di questo tipo. Stavo vivendo una realtá tragicomica, oserei dire una commedia; avevo cinquant’anni; non avevo mai insegnato ai bambini; non conoscevo una sola parola di portoghese ed ora avevo di fronte a me una classe di 26 bambini brasiliani di 1ª elementare, a cui dovevo insegnare italiano, storia, geografia e religione (cosí prevedeva il contratto che mi fu spiegato e fatto sottoscrivere in Brasile). Inoltre, come se non bastasse, in quelle aule non esisteva nessun tipo di sussidio didattico (nessun cartellone, nessuna lettera dell’alfabeto, nessuna cartina murale illustrativa). Praticamente c’erano solo i banchi, le sedie, la lavagna ed i bambini.
Dopo pochissimi istanti di intensa e drammatica riflessione, decisi di andare avanti. Cominciai a fare alcuni disegni alla lavagna e scandivo ai bambini i nomi delle figure che stavo tracciando (disegnai figure di bambini, di giocattoli e di oggetti scolastici). Dopo varie ripetizioni insieme alla classe, cancellai i nomi sotto le figure e invitai i bambini a ripetere ció che stavano vedendo; con mia grande meraviglia, la classe ripeté tutto in modo corretto. Capii che stavo adottando un metodo che probabilmente non rientrava nei manuali della didattica ministeriale (non ne avevo mai letto uno), tuttavia era un metodo che stava funzionando molto bene. I bambini stavano imparando bene alcuni vocaboli della lingua italiana, erano molto contenti e ridevano.

Il primo vero problema lo incontrai lo stesso giorno del debutto. Piú o meno dopo circa due ore di insegnamento, prima un bambino, poi un altro e poi un altro ancora, vennero vicino al mio tavolo dicendo “professó, scí scí”, io, non intendendo quello che dicevano, li invitavo (con gesti e con parole) a tornare ai loro posti; notavo peró che questi bambini venivano vicini alla cattedra sorridenti, ma quando li invitavo ad andare ai loro posti, essi ubbidivano, ma diventavano tristi. Intuii che qualcosa non stava andando bene; uscii un attimo dalla classe e chiesi “aiuto” ad un altro insegnante italiano che stava in Brasile da vari anni e mi feci tradurre la parola “scí scí”; mi spiegó che era “fare pipí”. Tornai velocemente in classe ed invitai (anzi pregai) i bambini che avevano chiesto prima “scí scí”, ad andare al bagno; l’invito fu raccolto non solo da essi, ma molti altri li seguirono. Quando rientrarono tutti in classe, colsi l’occasione per spiegare loro quali erano le parole italiane da dire, per andare al bagno. Tutti appresero rapidamente, infatti nel giro di un quarto d’ora, dopo aver chiesto l’autorizzazione in italiano, tutta la classe (a turno) era andata al bagno. Alla fine delle lezioni, tornando verso l’albergo (Hotel Max Savassi), dove eravamo stati alloggiati, feci una rapida autovalutazione del mio operato di insegnante e dedussi che la parte piú difficile, ossia l’impatto con la nuova realtá, l’avevo superata; restavano da migliorare alcuni miei dettagli comportamentali e dovevo rapidamente aggiornarmi su alcune nozioni di didattica moderna. Comunque mi ritenevo soddisfatto.